Posts written by Selendream

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    Corona di diamanti appartenuta alle vedove Austria/Este


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    Un importante parure di diamanti e rubini stile art deco : Parigi risalente al 1930 circa . Composto da: una combinazione ciondolo-collana / braccialetto, un braccialetto, un paio di orecchini e una spilla. Provenienza: in origine apparteneva a Maria Cristina d'Asburgo-Lorena (figlia dell'arciduca Carlo Ferdinando d'Austria e Arciduchessa Isabella d'Austria-Este-Modena). Fonte: Sotheby Magnificent Jewels, St. Moritz, 22 febbraio 1997.

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    Isabella d'Este. 1534. Olio su tela. Kunsthistorisches Museum. Vienna, Austria.


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    adorabile nuova foto dell'ex Re Alberto II e la regina Paola del Belgio con la loro pronipote, figlia del principe Amedeo Austria/Este ( figlio dell'attuale Duca de jure di Modena Lorenz e della Principessa Astrid ) e Arciduchessa Elisabetta. La foto è stata usata come cartolina di Natale del 2016

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    La regina Maria Cristina di Savoia (1812-1836), il cui marito ha governato il più grande dei regni italiani prima dell'unificazione nazionale, è stato beatificata a Napoli il 25 gennaio Era figlia del re Vittorio Emanuele I di Savoia e Arciduchessa Maria Teresa d'Austria-Este, Maria Cristina sposò il re Ferdinando II delle Due Sicilie nel 1832. la regina è morta dopo la nascita del loro unico figlio. Di lei si ricordano l'umiltà e profonda carità verso i poveri.

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    Maria Teresa Austria/Este ultima Regina di Baviera circa 1870

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    Maria Ludovica d'Austria-Este, consorte di Francesco I d'Austria. Di Giovanni Battista Lampi. 1810

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    Maria Beatrice d'Austria-Este (Modena 13 Feb 1824-Graz 18 Mar 1906; fresa Graz); m.Modena 6 Feb 1847 Juan, Infante di Spagna (Aranjuez 15 Maggio 1822-Brighton 21 Nov 1887)
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    Ed or alcune bellissime stampe dell'epoca riguardanti la Brigata estense :


    questo è lo stendardo della fedele Brigata Estense in tutta la storia che seguì il sovrano in esilio


    Catena/Collare dell Gran Croce dell'Ordine dell'Aquila Estense


    antica mappa dei territori confinanti con il Ducato di Modena


    Milizia Territoriale


    La difesa del Ducato di Modena a Brescello ( ora in provincia di Reggio Emilia ) sulle rive del Po


    La difesa del Ducato nell'appennino e nella Garfagnana


    Ufficiale della Brigata Estense in tenuta di gala


    La brigata Estense in un torneo a Basano del Grappa, ove era in esilio con il Duca


    La Brigata Estense sezione trasporti militari e sanità


    La Brigata Estense Cavalleria


    La Brigata Estense Artiglieria


    Il Duca Francesco v con il suo Stato Maggiore


    La reale Casa d'Austria/Este nell'Impero Austro Ungarico 1906
    1°reggimento d'Este nell'Esercito Austriaco
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    L'austria nonstante tutto rimane una grande nazione rispetto a noi che ha fatto pace anche con i suoi demoni, che ha rispetto per e sue tradizioni e passato.

    Cmq per FG provo pena perchè non ha saputo vedere i tempi che cambiavano e ha lasciato che quel grande impero si disgregasse sotto le forze pseudo liberali della borghesia
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    :P :D
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    CITAZIONE (s.i.m.p.aticissima @ 15/2/2017, 15:41) 
    Bentornata Prinzessin.
    Molto interessante la descrizione dei rapporti tra il Duca e Francesco Giuseppe

    Ciao cara in anteprima questo è quello che dirò alla conferenza del 19 marzo su Francesco Giuseppe
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    Un Duca e un Imperatore

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    I rapporti fra il Duca di Modena Francesco V e L'Imperatore Francesco Giuseppe furono sia di reciproca amicizia ma anche molto burrascosi.

    Francesco V rimase sempre fedele al Capo "della sua famiglia" ; pur non risparmandogli critiche molto aspre.

    Francesco Giuseppe dal canto suo tenne sempre in considerazione il Duca per il suo rango , condividendo con lui, in periodo, di pace momenti di intima amicizia con le rispettive mogli.
    Nei momenti in cui gli eventi erano altamente contrari FG non esitò ad "abbandonare Fv ..........." Infatti il Duca ebbe a dire " Il capo della mia famiglia cosa fare di me....chi è fedele viene sacrificato sia dal nemico che dall'amico "

    Nei periodi di pace si annoverano vari incontri tra il Duca e l'Imepratore , come ad esempio :

    - durante l'Aprile del 1854 la coppia ducale si recò a vienna per assistere al matrimonio di FG con la famosissima Elisabettta meglio nota come Sisi e si trattenero per tutte le celebrazioni.

    - nell'estate del 1856 Fv e la moglie furono ospiti a Ischl alla Kaiservilla invitati dall'Arciduchessa Sofia.

    - il 25 novembre 1856 FG con la moglie giunse a Venezia e la coppia ducale fu invitata a raggiungerli e rimasero con loro fino al 9 dicembre

    - il 14 agosto 1858 vi fu un Te deum nella Chiesa Ducale ( S.Domenico ) per la nascita dell'erede al trono Imperiale Austriaco : Rodolfo

    - si è venuto a conoscenza che nell'anno 1857 era stata organizzata per a Coppia Imperiale una visita al Ducato di Modena; ma che purtroppo non venne fatta per problemi di ordine pubblico ( da un documento dell'Archivio COmunale di Modena )

    Da ciò si deduce che i rapporti ch eintercorrevano tra la Corte Modenese e Imperiale erao molto stretti.


    Nell'anno 1859 , nel periodo che precedette l'esilio definitivo del Duca, quest'ultimo viveva un momento di perplessità se richiedere ancora l'aiuto austriaco visto le cocenti delusioni come il risarcimento solo dei danni subiti nel 1848/49; ma poi gli eventi volsero sempre più al peggio e il 31 maggio FV ottenne da Vienna l'eventuale trasferimento oltre il PO con il suo esercito.
    Il giorno 11 giugno 1859 Il Duca Assieme all Brigata Estense ( Unico esercito a seguire il suo sovrano in esilio) partì da Modena per non farvi più ritorno.
    Questo si immagina che pensasse il Fv guardando Modena da Ponte Alto, lasciandola per sempre
    " Laria tremula confonde i dettagli microscopici; ma ogni tetto, ogni finestra, ogni strada, è visibile come in quelle antiche mappe che gli piacevano da bambino. Modena, la grande Modena, la sua Modena"

    Fv ormai in esilio capisce ch eil suo destino ormai dipende dalle decisioni di FG; perciò chiede ed ottiene d seguirlo sia al quartiere imperiale che in zona di operazioni.
    Fv non tardò a capire la confusione che regnava nelle alte sfere dirigenziali austriache " la tristezza, l'irrisolutezza, l'ignoranza erano i tratti caratteristici di tutti "
    Il Duca non può lo stupore che prova a constatare la leggerezza, quasi l'incoscienza, con cui a partire dall'Imperatore; ci si iludeva di fare fronte a una situazione sempr epiù disastrosa.
    Il Duca cmq era contento di essere stato ammesso al seguito del'Imperatore,accetta di pagarne lo scotto. FV infatti nonostante fosse un capo di Stato non veniva tenuto al corrente delle varie situazioni; dev provvedere personalmente al proprio alloggio e cavalcature e sporatutto è costretto a stare sempre in guardia per evitare che FG parta senza avvertirlo.

    Dopo la disfatta di Solferino FV emette una dura sentenza nei riguardi di FG e dei vertici austriaci scrivendo che il più attivo era un'ultraottantenne feldmaresciallo di riserva; capisce che visto il climache regava e l'intensificarsi dei rapporti tra Austriaci e Francesi che certamente la riciesta di un armistzio sarebbe certamente stata accettata.

    Dell'Armisitizio di Villafranca Fv ne viene a conoscenza solo dopo la sua conclusione e ciò rende evidente lo stato d'isolamento in cui viveva FV. Solo il 12 luglio 1859 a trattato firmato FG espose a FV i particolari del trattato di Villafranca.
    Con la pac di Zurigo ( 10 novembre 1859 ) si riaffermava i diritti dei Sivrani degli Stati preunitari , senza però sanzionarne la restaurazione. L'esclusione quindi di un aiuto da parte delle truppe austriache vanifcò le concrete possibilità di recuperare il trono per FV.
    Bisogna dire che se in questo caso FG fu tacciato di immobilità e inattivtà bisogna ricordare che era troppo coinvolto nel difendere i territori diretti dell'imperom e che purtroppo la situazione non volgeva a suo favore.

    Fv scriveva a Bayard de Volo ( 8 ottobre 1862, quando lo scioglimento della Brigata Estense era già decretato ) " L'Austria è dunque all'altezza dei tempi, sa mancare di parola e abbandonare chi si affida a lei..."
    FG comunicò a FV che il mantenimento della Brigata Estense sarebbe durato fino al 31 ottobre 186£ e la Brigata venne sciolta il 24 settembre 1863; fu un durissimo colpo per il Duca.
    Nei mesi seguenti sempre all'amico Bayard de Volo il Duca scrisse
    " Io mi sacrificai al mio posto per 13 anni, sacrificai la mia libertà e per altri 5 anni attendendo che Sua Maestà ( FG ) avesse bisogno di me. Sacrificai per ultimo le mie truppe....quindi ora sono ridotto ad ozioso d cui nessuno si cura...non voglio essere testimone della lenta decomposizione di quella monarchia "

    Nel 1865 la legazione Estense presso Vienna venne definitivamente chiusa e nel 1866 la cessione del Veneto al Regno d'Italia convinsero definitivamente Fv che non vi sarebbe
    più stato ritorno.

    A Vienna FV si ritirò sempre più a vita privata.
    Denuncia però la condizione dei regnanti ( fa cui FG ) dell'epoca
    " Sovrani che stringono la mano al diavolo e alla croce insieme"
    La vita a Vienna per il Duca diviene sempre più scomoda nella condizione del parente povero e ciò è sempre più duro da tollerare. FV assieme alla moglie passeranno molto tempo al Wildenwart Schloss lontani da Vienna e dalla Corte.

    Alle 8 del mattino del 1875 l'ultiomo Duca Asburgo/Este di Modena spirava .
    FG informato dell'accduto si precipita, ha parole di sconforto e viene visto piangere. Dopo solenni cerimonie a cui partecipa tutta la famiglia Imperiale il suo feretro è deposto nella Kaisergruft.
    Questo fu l'ultimo "incontro " tra un sovrano ormai senza Regno e un Imperatore di un Impero che si stava disgregando

    " Napoleone III fa il suo mestiere, ma l'Europa non fa il suo ...."


    Bibliografia:

    - Adelgonda di Baviera
    di Elena Bianchini Braglia
    Edizioni Terra e Identità

    - Memorie ( di quanto disposi ed udii dall' 11 giugno al 12 luglio 1859 )
    di Francesco V d'Austria/Este
    Edizioni Aedes Muratoriana Modena 1981

    - In esilio con il Duca
    di Elena Bianchini Braglia
    Edizioni il Cerchio

    - Il Quinto Francesco
    di Roberto Vaccari
    Edizioni ArteStampa
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    La principessa Sissi che non lo era
    Né principessa, né Sissi: un nuovo libro raccoglie e spiega tutti i miti costruiti - soprattutto da un film - intorno alla storia dell'Imperatrice d'Austria

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    Renzo Castelli, giornalista e scrittore, ha pubblicato con l’editore ETS il libro “La vera storia della Principessa Sissi e dell’anarchico che la uccise”, dedicato ai miti costruiti nel tempo intorno al personaggio storico dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, vissuta tra il 1837 e il 1898, quando venne uccisa in un attentato, e da allora divenuta protagonista di letterature, cinema e leggende molto diffuse e popolari. Questa è la prefazione dello stesso Castelli.


    L’idea di una rivisitazione – l’ennesima – del personaggio di Elisabetta d’Austria, una delle figure più famose, ammirate ma anche controverse del XIX secolo, è nata dal turbamento provato per la vicenda umana dei destini incrociati di un’imperatrice e del suo assassino, due esistenze così diseguali nella scala sociale eppure a loro modo così simili nei pensieri, nelle contraddizioni, nella sofferenza. Come poteva essere accaduto che un’imperatrice asburgica, declamata per la sua bellezza e poi messa in effige nel mondo intero come un’icona di dolcezza, potesse essere parte del potere eppure tanto insofferente ad esso e addirittura ribelle quanto un anarchico italiano diseredato e respinto da tutti ma, al tempo stesso, così affascinato dall’istituzione militare? E quanto era vero, quindi, che l’uomo che uccise l’imperatrice d’Austria fosse un ‘vero’ anarchico e non, piuttosto, un esaltato gonfio di risentimento e di disperazione, spinto da circostanze contingenti e quasi casuali. Certamente era un uomo che aveva molto sofferto, vivendo un’infanzia e un’adolescenza da derelitto e restando infine deluso da quei potenti ai quali aveva sperato di accostarsi. Le contraddizioni del racconto che si è fatto in oltre un secolo della vicenda sono molte e cercheremo di fare luce sulle più clamorose.
    Già il carattere e lo stesso nome della ‘principessa Sissi’ sono stati con il tempo falsificati prima ancora che mitizzati. Perché ‘Sissi’ non fu mai così dolce e ingenua come troppo spesso la si è dipinta: dopo aver mostrato la sua indole ribelle fin dall’adolescenza, una volta entrata da imperatrice nella rigida Corte viennese tenne per il resto della sua vita comportamenti molto discussi. Questa fu ‘la principessa Sissi’. una donna, però, che non poté mai essere stata ‘principessa’ né venne mai chiamata con quel vezzoso diminutivo: ‘Sissi’.
    Il maggior responsabile dinanzi al pubblico di queste falsificazioni fu un regista di discreta fama, il viennese Ernst Marischka. Costui, giunto a 62 anni con una buona carriera alle spalle (già 26 film e una nomination all’Oscar come soggettista di un film sulla vita di Chopin, ‘L’eterna armonia’), ebbe l’ispirazione di porre la sua attenzione sul personaggio, certamente più drammatico che poetico, di Elisabetta d’Austria. Ma il soggetto dei film non tenne in alcun conto della realtà dei fatti. Marischka piegò la storia alla sua fantasia offrendo al pubblico una vicenda d’amore molto edulcorata, scritta su carta patinata come fosse un fotoromanzo. Nel 1955 uscì il primo film di una trilogia destinata a raccogliere un successo mondiale, proponendo al pubblico un racconto in pieno stile Heidi dove la montagne bavaresi – paesaggi intrisi di romanticismo – contribuivano a creare quel clima, tanto poetico quanto oleografico, nel quale si sarebbe dipanata la storia d’amore fra Sissi – così lui la chiamò, arbitrariamente, nel film – e il giovane imperatore asburgico Francesco Giuseppe. Con l’interpretazione molto coinvolgente della splendida diciassettenne Romy Schneider nella parte di Elisabetta e del bel Karlheinz Böhm nella parte dell’imperatore, in tre anni – dal 1955 al 1957 – Marischka sfornò i tre film: ‘La principessa Sissi’, ‘Sissi, la giovane imperatrice’, ‘Sissi, il destino di un’imperatrice’.
    Marischka era recidivo: l’originaria forzatura sul vezzeggiativo ‘Sissi’ era stata già compiuta ventitré anni prima, allorché, nel 1932, a Vienna era stata messa in scena l’operetta comica dal titolo ‘Sissi’ di Fritz Kreisler, con libretto scritto proprio da Ernst Marischka e dal fratello Hubert. Quel lavoro aveva avuto scarso seguito ma era stato qua che il nome ‘Sissi’ aveva fatto la sua prima comparsa avendo sostituito senza alcuna giustificazione i due diminutivi originari – ‘Lisi’ e ‘Sisi’– con i quali, durante la sua vita, Elisabetta era stata chiamata: in famiglia, ‘Lisi’, a Corte, ‘Sisi’. Se ‘Lisi’ era infatti il diminutivo naturale di Elisabetta (tutti i dieci figli di Max e Ludovica Wittelsbach avevano vari nomignoli), quello di ‘Sisi’ fu un equivoco nato dalla firma apposta alle lettere che la giovane mandò a Francesco Giuseppe durante il pur breve fidanzamento, nelle quali la ‘Elle’ di Lisi aveva uno strano ghirigoro che poteva essere scambiato per una ‘Esse’. L’errore si comprende bene osservando la firma apposta da Elisabetta anche in calce a ogni poesia della sua vasta produzione ed è la firma

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    L’equivoco è ben spiegato in questi termini da Paul Heinemann, un antiquario di Starnberg, il paese che dà il nome al lago sul quale si affacciava anche il castello di Possenhofen, residenza estiva dei Wittelsbach. Heinemann ha gestito fra l’altro un piccolo museo personale dedicato a Elisabetta con cimeli di vario tipo e la sua ricerca appare attendibile per quanto è stata accurata. Del resto, anche chi visiti oggi la Hofburg a Vienna, incontrerà, oltre gli appartamenti imperiali, il ‘Sisi Museum’ (e non un ‘Sissi Museum’).
    Fu dunque con i tre film degli anni Cinquanta, tutti di enorme successo, che il pubblico venne coinvolto e quindi travolto da immagini e intrecci amorosi che avevano ben scarso riscontro nella realtà: tutto era così falso, già a partire dal titolo nobiliare e dal nome dati alla protagonista, la cosiddetta ‘principessa Sissi’. Al regista, benché viennese, poco importò infatti che Elisabetta d’Asburgo fosse stata dapprima ‘duchessina di Baviera’ e, poi, sposando Francesco Giuseppe a soli 16 anni e mezzo, ‘imperatrice d’Austria’, infine anche ‘regina d’Ungheria’. Quindi, mai aveva potuto fregiarsi del titolo di ‘principessa’. Né tanto meno interessò al registra austriaco che mai, nessuno, né durante l’adolescenza trascorsa nel castello di Possenhofen, in Baviera, né alla Corte viennese, avesse chiamato Elisabetta con il nomignolo di ‘Sissi’.
    Sulle ali del clamoroso successo della trilogia sulla ‘principessa Sissi’ accaddero cose indicibili. Nel 1957 il regista Alfred Weidenmann girò ‘Sissi a Ischia’, una banale storia, ambientata nell’isola, senza alcun nesso con il personaggio originale. Due anni dopo un altro regista, Axel von Ambesser, girò un film il cui titolo italiano fu ‘Sissi, la favorita dello zar’. Vi si raccontava la movimentata vicenda di una giovane e bella bustaia – chiamata maliziosamente ‘Sissi’ – della quale lo zar si era invaghito durante il congresso di Vienna. Ma a decretare il successo di entrambe le pellicole fu la presenza, nel ruolo di protagonista, dell’attrice Romy Schneider.


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    Con gli anni Sessanta la Schneider cominciò a manifestare una crescente insofferenza verso quel ruolo. Il personaggio le era rimasto addosso come un fosco presagio. L’attrice aveva intanto studiato il profilo storico dell’imperatrice d’Austria ed era rimasta molto turbata dal suicidio del figlio Rodolfo. E’ quanto confessò al suo vecchio compagno Karlheinz Bohm allorché rifiutò, malgrado le avessero offerto un contratto d’oro, la proposta del regista Mariscka di girare nel 1961 un quarto film su ‘Sissi’. Come sappiamo, l’alcolismo e la depressione porteranno a soli 44 anni alla scomparsa della bella attrice viennese dopo che il figlio David era rimasto ucciso, a soli 14 anni, in un incidente dai contorni drammatici. Elisabetta di Wittelsbach e Romy Schneider, un’imperatrice e un’attrice, due donne così lontane nel tempo ma con un destino reso comune dalle storie del cinema. E poi, soprattutto, dallo stesso, atroce dolore: la morte di un figlio.
    Romy Schneider tornò tuttavia a interpretare, non da protagonista, il ruolo dell’imperatrice d’Austria ma in una pellicola di ben altro spessore. Fu quando nel 1973 il regista Luchino Visconti diresse ‘Ludwig’. Attento alla ricerca storiografica, Visconti raccontò la vicenda tragica del cugino di Elisabetta, re di Baviera, detronizzato perché considerato pazzo e morto suicida nel lago di Starnberg. Il 10 luglio del 2014 Sky ha proposto per la prima volta la visione integrale del film: 3 ore e 40 minuti di spettacolo nel quale la Elisabetta, nell’interpretazione della Schneider, non una sola volta viene chiamata ‘Sissi’ ma sempre e soltanto ‘Elizabeth’. Gli sceneggiatori Suso Cecchi d’Amico, Enrico Medioli e lo stesso Visconti, quindici anni dopo la produzione di Mariscka, non ne avevano evidentemente subito alcuna influenza (ammesso che avessero mai visto quelle penose pellicole).
    Nel 1992 il compositore Sylvester Levay e lo scrittore Michael Kunze, entrambi di origine ungherese, che attualmente ancora vivono in America e lavorano a Hollywood, hanno composto e scritto un musical di successo che, ignorando anche loro i film di Mariscka, hanno titolato ‘The Empress Sisi’ (‘L’Imperatrice Sisi’). Ma nel 2003 il regista francese Jean-Daniel Verhaeghe ha girato un film ancora una volta dal titolo: ‘Sissi, l’imperatrice ribelle’. Purtroppo anche la televisione italiana ha contribuito a perpetuare di recente l’equivoco producendo nel 2010 un tv movie in due puntate – una coproduzione con Germania e Austria – che aveva come titolo ‘Sissi’ (negli altri due Paesi, ’Sisi)’. Nel 2014 il tv movie, ridotto a una sola puntata, aggiunge altre inesattezze alla storia. Hanno infine dedicato servizi alla ‘principessa Sissi’ anche trasmissioni di maggiore rigore come ‘Quark’ e ‘Atlantide’.
    Con altrettanta approssimazione storica, molte biografie di Elisabetta hanno definito ‘anarchico’ il suo assassino. Così Luigi Luccheni era stato subito catalogato dalle cronache e poi dalle innumerevoli ricostruzioni che si fecero del regicidio. Ma, come vedremo, in maniera fin troppo frettolosa perché Luccheni, per quante indagini fossero state fatte, non risultò aver mai fatto parte di gruppi o cellule anarchiche e anzi, fino a pochi mesi prima del suo gesto criminale, ebbe un rapporto molto rispettoso verso le istituzioni. Anzi, vi operò con tanto onore da guadagnarsi un encomio per il lungo periodo del suo servizio militare e della guerra combattuta in Abissinia. Una volta congedato, il giovane ambì fortemente a fare la guardia carceraria a Napoli ma la domanda, che presentò per ben tre volte, venne sempre respinta.
    Su Elisabetta di Wittelsbach sono state scritte nel mondo varie biografie diversamente impostate ma nessuna è riuscita a scalfire, almeno in Italia, l’immagine che era uscita, falsata, dalla popolarissima filmografia di Mariscka. Malgrado che alcuni autori abbiano contestato nei loro libri il contenuto storico dei film di Mariscka e che altri abbiano raccontato, con ricchezza di particolari, i diversi aspetti della vita di Elisabetta – anche i più delicati e scabrosi come le accuse di essere lesbica, di avere avuto vari amanti e anche un figlio illegittimo, infine di essere cocainomane -, nell’immaginario popolare la vicenda della ‘principessa Sissi’ e il suo destino, drammaticamente incrociato con quello del suo assassino, restano ancora oggi circondati da un alone di romanticismo, quasi si volessero considerare estranee alla storia – cioè, non avvenute – le molte tragedie che invece sconvolsero e alla fine accomunarono queste due esistenze.

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    dal sito : www.ilpost.it/2014/11/24/principessa-sissi/
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    Evento tenutosi a Modena nell'autnno del 2016 con sua Altezza Imperiale e Reale Arciduca Sburgo/Este Martino in cui ha tenuto una conferenza sulle ripercusiioni della 1a guerra mondiale sul mondo attuale

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    Foto della mostra tenutasi a Parma, sempre nel 2016, in onore di Maria Luigia d'Austria amata duchessa di Parma e grande amica di Adelgonda di Baviera. Nel museo Lombardi di Parma è conservata una lettera scritta da Adelgonda a Maria Luigia. Inoltre Adelgonda fu spesso ospite di Maria Luigia a Parma come invece Maria Luigi fu spesso ospite dei Duchi di Modena in una delle delizie estensi di Modena la cosidetta " villa delle cento finestre "

    Foto del marito di Adelgonda il Duca Asburgo/Este di Modena Francesco V

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    :wub: :wub: grazie mille
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    ciao Klara grazie mille purtroppo mamma ha avuto ricoveri ; speriamo che si possa tutto risolvere
    ;) ;) ;)
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    Ciao a tutte chiedo scusa della mia assenza ma sto attraversando a livello famigliare un periodo non troppo felice

    No non esiste il luogo di sepoltura della Monaca di Monza perchè quel convento detto delle Penitenti di Santa Valeria di Milano non esiste più.
    Ma ecco un interessante articolo su di lei sulla sua morte e vita :

    La Monaca di Monza morì in odore di santità?
    Vita, amori e redenzione di Marianna de Leyva

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    21 NOV 2012 di ANTONELLO CANNAROZZO
    In un freddo mattino di gennaio, una suora conversa del convento milanese delle Penitenti di Santa Valeria, scriveva sul foglio maestro la seguente nota: "1650, adì 7 genaro, devono le sudette per alimenti douti alla sudetta sor Verginia Maria Leyva sino adì sudetto che è pasata a megliora vita", con queste scarne parole veniva annunciata la fine alla vita tormentata di suor Virginia, al secolo Marianna de Leyva, più conosciuta come la “Monaca di Monza”, la sciagurata suor Gertrude di manzoniana memoria. Un nome rimasto simbolo di ogni scelleratezza e di ogni sacrilegio. Eppure, questa donna, proprio verso la fine della vita, venne considerata, da chi la conosceva, una santa. Di lei si diceva addirittura che aveva visioni mistiche e lo stesso illustre cardinal Federico Borromeo, anche lui di manzoniana memoria e inizialmente suo grande accusatore, ebbe parole di grande stima per la monaca, tanto da invitarla ad aiutare le altre “consorelle dubbiose o provate dal demonio”. Della splendida donna di un tempo, della sua bellezza e della sua alterigia, non rimaneva ormai, alla fine della vita, che un corpo assai minuto e rattrappito da una artrosi deformante. Malgrado ciò, questo esile corpo sapeva infondere ancora rispetto e dignità a chiunque avesse avuto modo di incontrarla, come raccontano le testimonianza che ci sono rimaste di lei. Ma come è potuto accadere che una donna che discese fino in fondo la scala della perdizione potesse, poi, un giorno, morire santamente? Si dice che le vie del Signore siano infinite e misteriose e per Marianna de Leyva furono veramente tali fin dall’infanzia.

    La vita
    Non abbiamo una data precisa della sua nascita, ma da alcune affermazioni da lei stessa fatte, possiamo datarla intorno al 1576. Era figlia unica di una nobile e ricca famiglia. Il padre, Martino de Leyva, essendo secondogenito di Luigi, il più importante generale alla corte di Carlo V di Spagna, ebbe la vita segnata dalla carriera militare che, a quanto pare, abbracciò ben volentieri. Lo vediamo, infatti, partecipare con gesti di eroismo all’assedio di Granada, alla battaglia navale di Lepanto e a quella della Goletta: insomma un vero soldato, degno del nome dei Leyva. A ventisei anni, però, forse spinto dalla famiglia, cominciò finalmente a pensare al suo futuro e la fortuna gli fece incontrare una giovane vedova già madre di cinque figli. La donna aveva una dote tra tutte: era la figlia di Tommaso Marino, l’uomo più ricco di Milano e, all’epoca, tra gli uomini più potenti d’Europa. Inutile dire che da parte di Martino sbocciò subito l’amore per questa giovane vedova e, forse, anche per la dote, come commentarono le malelingue. Il nuovo matrimonio di Virginia venne allietato subito dalla nascita di Marianna, unica figlia della coppia, e la famiglia prese possesso di un’ala della residenza signorile del padre della sposa, appunto Palazzo Marino, che secoli dopo diverrà la sede del comune di Milano. Purtroppo la gioia famigliare durò poco più di un anno. Virginia morì improvvisamente di peste e per Marianna, ancora piccolissima, cominciò la dura battaglia della vita. Alla morte della moglie, Martino riprese la via delle armi e partecipò alla guerra delle Fiandre stando lontano da Milano per oltre tre anni. Marianna, nel frattempo, andò a vivere presso la zia materna e fu accudita da una fedele balia. Furono anche gli anni in cui si addensarono sulla piccola le nubi che ne condizioneranno il resto la vita. Poco prima di morire, sua madre Virginia volle redigere un testamento dividendo i suoi beni a metà tra la piccola Marianna e il figlio più grande, Marco Pio; al marito rimaneva l’usufrutto della dote fino alla maggiore età dei due giovani. Le altre figlie femmine furono di fatto escluse. Il testamento fu, ovviamente, impugnato dalle sorellastre e dopo una lunga e costosa causa si arrivò a un compromesso che il padre, Martino de Leyva, firmò immediatamente pur di non aver più a che fare con avvocati e tribunali. Morale della storia: la dote della piccola Marianna, pur rimanendo sempre sostanziosa, si prosciugò a meno della metà di ciò che le spettava e il rapporto con i fratellastri fu praticamente interrotto per sempre, lasciando Marianna più sola.

    Secondo alcune interpretazioni, la bambina era destinata al chiostro, come accenna lo stesso Manzoni, cosa certo non rara in quei tempi, ma le cose non stanno proprio così. Da una lettera datata 26 giugno del 1586 (la bambina aveva solo dieci anni, ndr) il padre accenna a una eventuale proposta di matrimonio e si parla già di una dote di 7 mila ducati. Ciò che cambiò veramente il corso della sua vita, fu il nuovo matrimonio di suo padre celebrato a Valencia con una nobildonna del luogo che lo portò per sempre lontano da Milano, ma assai vicino alla corte di Spagna con incarichi di grande prestigio. Dalla seconda moglie ebbe cinque figli, due maschi che seguirono le sue orme paterne e tre figlie: la prima, Adriana, entrò in convento ancora giovanissima, le altre due morirono in tenera età. Per Marianna la sorte fu la stessa della sorellastra. Un modo per salvare il patrimonio da ulteriori frammentazioni, un posto sicuro per la ragazza tra le mura di un monastero e lui, il padre, libero di condurre la vita che voleva. Dunque, il destino di Marianna era ormai segnato. A tredici anni compiuti entrava come postulante nel monastero benedettino di Santa Margherita a Monza. Marianna, che chiameremo da adesso suor Virginia, nome preso in ricordo della madre, era pur sempre una de Leyva e il padre le promise, affinché la sua vita in monastero fosse più accettabile, una dote di seimila ducati su trentanovemila che invece le spettavano di diritto, non solo, ma, da vero mascalzone, non mantenne mai l’impegno preso a favore della figlia. Di tutto questo suor Virginia sembrava non curarsene: abbracciò la vita monastica con grande serenità, tanto che nel 1591 compì la Professione di fede insieme ad altre giovani consorelle, tra la gioia delle altre monache.

    Nella “Storia Milanese” scritta nel 1600 dal canonico Giuseppe Ripamonti e che diverrà in seguito il canovaccio per I Promessi Sposi, troviamo una descrizione della giovane monaca: "…era la de Leyva modesta, circospetta, affabilissima, soffusa di un invidiabile candore, amica con tutte, delle discipline letterarie istrutta, come lo poteva essere in allora una giovinetta ben educata, obbediente, per nulla dispettosa, esempio di contegno sociale perfetto”, ma non solo. Tutta Monza era concorde nel lodarla, come lascia scritto, tra gli altri, un poeta locale, un certo Zucchi, nei suoi confronti. A vent’anni suor Virginia fu chiamata ad assolvere un incarico della massima delicatezza. Pur non potendo uscire dal monastero, nel 1596 diventa “La Signora” perché ereditò dal padre, per un’antica consuetudine dei Leyva, la sovranità su Monza per due anni, fino al 1598; in realtà eserciterà questo potere fino al suo arresto. Il suo compito consisteva nell’emettere gride, far arrestare i colpevoli così come rimettere loro le pene e vedremo che quest’ultima sua facoltà la saprà volgere a suo tornaconto.

    L'amante
    Per suor Virginia i vent’anni furono certamente un’età importante. Dopo l’incarico municipale ebbe, per la sua serietà e vita esemplare, l’incarico di maestra delle educande ospiti al monastero e da questo fatidico anno comincia la sua sventurata storia. Suor Virginia era severa e mal sopportava anche la minima levità da parte delle ragazze. Un giorno, passando per caso lungo un corridoio con le finestre sul giardino, vide una delle sue educande, una certa Isabella, intrattenersi attraverso una grata al di là della mura di cinta, con un giovane, Giovanni Paolo Osio. Virginia non esitò a riprendere duramente la ragazza per la sua sconvenienza, ricordando al giovane che con la sua scelleratezza profanava quel luogo sacro. Isabella, subito dopo l’accaduto, venne rimandata nel mondo e fatta sposare. L’episodio sarebbe finito così se, l’anno successivo, non fosse stato ucciso a Monza il responsabile tributario della città, Giuseppe Molteno, già amico della famiglia de Leyva. Suor Virginia ne provò un profondo dolore. Il movente non fu mai chiarito, ma dell’omicidio venne accusato Giovanni Osio. Chi poteva salvarlo dalla forca era proprio suor Virginia, “Signora”, come abbiamo già accennato, di Monza. Lei sola poteva decidere la sua sorte. Il giovane, ancora libero sulla parola, aveva capito di non essere indifferente alla religiosa e con alcuni stratagemmi cercò di attirare la sua attenzione. Virginia, che ancora manteneva tutti i freni morali della sua casata e della sua condizione di religiosa, non esitò a denunciarlo, ma il giovane riuscì a fuggire dalla città e per un anno fece perdere le proprie tracce. Come abbiamo detto, era tra le facoltà di Virginia, come “Signora” di Monza, poter confermare un arresto o prosciogliere un accusato. Si disse, in seguito, che a commuovere Virginia, affinché fosse concessa la remissione della pena del giovane assassino, furono le lacrime della madre andata in convento per difendere la causa del figlio.

    In realtà la monaca, già dai fatti accaduti tra la giovane Isabella e Osio, aveva cominciato, pur se segretamente, a sbirciare al di là del giardino nella proprietà adiacente abitata proprio dalla famiglia del giovane, nella speranza di rivederlo. Il giovane venne graziato e nel 1598, ormai al sicuro dalla legge, non dimenticò la bella “Signora” che era intervenuta per lui e in qualche modo voleva ringraziarla. Cominciò a inviarle, in gran segreto con la complicità di alcuni amici e di due suore all’interno del monastero, delle lettere appassionate scritte però da un suo amico, un ex prete, Paolo Arrigoni. Alle lettere, seguirono insistenti le richieste per un appuntamento che non trovarono, però, alcuna risposta. Finalmente, un giorno, in maniera del tutto inaspettata, Giovanni Osio ricevette la risposta tanto attesa che il Manzoni sottolineò nel suo romanzo con la celebre frase “…e la sventurata rispose ”; prosegue lo scrittore che essa “In que' momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma viva”. Ogni remora era venuta a cadere anche per la morte improvvisa del padre. Ora non ha più nessun vincolo, neanche con Dio, come si giustificò durante il processo, avendo fatto una professione di fede solo per ubbidienza alla famiglia.

    I delitti
    Così, nel Natale di quell’anno, Giovanni Osio, entrò per la prima volta all’interno del monastero con la complicità di due suore che avranno, come vedremo, un ruolo assai importante nella vicenda. Fu proprio in quella prima visita che i due ebbero il loro primo rapporto sessuale. Nel processo suor Virginia denunciò che la sua debolezza era da iscriversi a un maleficio d’amore che le era stato fatto proprio dal suo amante. Questi incontri non passarono inosservati e qualcuno accennò il tutto alla Madre Superiora, ma la cosa non ebbe seguito. Si fece intendere all’anziana monaca che ciò era dovuto perché suor Virginia era la madre spirituale del Giovanni Osio che voleva farsi, niente meno, che cappuccino. Ma gli incontri non erano proprio spirituali: nel 1602 Virginia rimase incinta e partorì una bimba nata purtroppo morta. Il cadaverino fu consegnato al padre per disfarsene. L’"incidente” lasciò Virginia assai turbata. Comprese che il rapporto che aveva instaurato era qualcosa di sacrilego, infernale. Si sentiva in preda ai demoni della lussuria e in un momento di disperazione tentò addirittura il suicidio. Fu fermata sulla soglia dell’abisso, come racconterà lei stessa, dall’immagine della Madonna di Loreto che era proprio nel giardino. Purtroppo era solo una parentesi. La relazione continuò a durare, nonostante i ripetuti sforzi di Virginia di sottrarsi a questo turpe rapporto, ma la natura fu sicuramente più forte e l’"incidente” si rinnovò appena due anni dopo. L’8 agosto, rimasta nuovamente incinta, partorì un'altra bambina, ma questa volta viva: sarà legittimata dallo stesso Osio nel 1606 con il nome di Alma Francesca Margherita. Egli disse di averla avuta da una certa Isabella da Meda, ma tutti a Monza, sospettavano la verità.

    Non avendo più alcun pudore, Virginia uscì più volte dal monastero per recarsi in casa di Osio e poter vedere così la piccola Alma. C’è però un giallo in questa già intricata storia. Virginia avvertiva con istinto materno che quella bambina che le facevano vedere non era in realtà quella che lei aveva partorito; alcuni segni dimostravano che aveva ragione, ma certo nella sua condizione non poteva far valere questi dubbi. L’anno successivo al secondo parto, venne in visita al monastero l’arcivescovo di Milano, Federico Borromeo, che non si accorse, almeno sembra, di nulla di ciò che accadeva in quella comunità religiosa. Assegnò, com’era solito, a ogni monaca la propria penitenza e fu particolarmente esigente proprio con suor Virginia imponendole digiuni e flagellazioni. Questa visita del cardinale cominciò a segnare la vita della monaca. La crisi di coscienza che cominciava a nascere nel cuore di Virginia, l’allontanamento di Osio che già guardava altrove altre “prede”, avevano creato una strana situazione di pace e di serenità. Ormai la monaca pensava che la follia dei sensi fosse sopita per sempre e che avrebbe potuto riprendere il suo cammino monastico. Purtroppo, però, nel monastero, tra le converse che dovevano diventare professe, c’era una certa Caterina, la quale, a detta di tutte le monache, non era adatta alla vita religiosa, sia per il suo carattere scorbutico che per i furti che perpetrava all’interno dell’istituto. Un giorno, per le tante gravi mancanze, venne punita in maniera esemplare con la reclusione in una cella di penitenza su istanza di suor Virginia. La giovane reclusa si ribellò a questa detenzione che riteneva ingiusta, e la sua rabbia si scatenò proprio contro la nostra monaca. Sapendo cosa era successo nel monastero tra suor Virginia e Osio, minacciò di denunciare tutti a monsignor Pietro Barca, canonico di Sant'Ambrogio, in visita proprio l’indomani al monastero. Non c’era tempo da perdere. Virginia, con le due suore sue complici da sempre, presa dal panico comunicò ciò che stava avvenendo al suo amante il quale, senza esitare, entrò nella cella di Caterina e la uccise con tre colpi alla testa; poi prese con sé il cadavere, facendone scempio e gettando la testa in un fitto bosco. Per evitare troppe domande, praticò anche un buco nel muro di cinta facendo credere all’ispettore ecclesiastico e alle monache che quella pazza di Caterina era fuggita dal monastero. Nessuna delle monache credette alla fuga, ma per timore di suor Virginia o per quieto vivere, non esternarono ciò che in cuor loro sospettavano.

    A questo punto, però, ciò che succedeva al di là del muro delle benedettine divenne a conoscenza di tutti in città, ma la “Signora” e Osio facevano ancora paura e nessuno fiatò. Qualcuno che si lasciò sfuggire qualcosa rischiò, infatti, la vita, come il fabbro Cesare Ferrari che fu ucciso nella sua bottega, tra l’esecrazione e i sospetti dell’intera comunità. A questo punto rischiava anche l’ex prete, Paolo Arrigoni, che aveva ordito tutta la tresca tra i due amanti e che aveva aiutato il giovane Osio a scrivere le lettere alla monaca. L’uomo sapeva troppo, doveva morire, ma in un sussulto di carità Virginia non permise di portare avanti il piano delittuoso. Ormai però lo scandalo non poteva più essere taciuto e, grazie a lettere anonime ben circostanziate, Giovanni Osio fu arrestato e condotto a Pavia. Nessuno sa se l’arresto fosse dovuto ai delitti o alla relazione con Virginia. In questo frangente, il giovane assassino commise un grave errore. Senza ancora sapere di cosa lo si accusava si dichiarò innocente degli omicidi e della relazione con Virginia. La stessa imprudenza la commise anche Virginia che in una lettera al Governatore di Milano si dichiarò innocente dei delitti e della relazione con Osio. Due errori che gli amanti pagheranno duramente.

    La condanna
    Il cardinale Borromeo rimase sconvolto da queste rivelazioni e volle andare fino in fondo all’accaduto, senza riguardo per alcuno. Lo scandalo dilagava tra i cittadini di Monza con gran nocumento per la Chiesa locale. Con la scusa di un’ispezione, si recò al monastero per intrattenersi in colloquio con le monache. In realtà l’obiettivo era Virginia e, una volta incontratala, Borromeo non esitò, con giri di parole, a suscitare in lei il desiderio di confessare. Ma la monaca non cadde nella rete del cardinale, anzi, ribadì, senza mai entrare nello specifico, che la sua vita specchiata era davanti a tutti. Il colloquio si concluse, ma Borromeo aveva ormai capito con chi aveva a che fare. Intanto i due amanti sapevano benissimo che la situazione stava loro sfuggiendo di mano e commisero un altro errore. Il farmacista Rainiero Roncino aveva cominciato a parlare apertamente delle “porcherie” che avvenivano in monastero e di chi fossero le persone coinvolte. La sua condanna a morte era ormai decisa. Uno dei bravi della famiglia Osio, essendo il suo padrone in carcere a Pavia, si incaricò di ucciderlo con una pistola che fece ritrovare, come per ogni poliziesco che si rispetti, a tempo opportuno proprio nella casa dell’ex prete Paolo Arrigoni, un modo discreto per metterlo a tacere per sempre. Arrigoni venne, infatti, arrestato; nessuno ormai aveva più intenzione di coprire questa tremenda storia. Ben presto le accuse verso Virginia e Giovanni Osio diventarono un fiume in piena.Tutti parlavano, tutti sapevano. Lo scandalo non conobbe più alcuna reticenza. Tutto fu riportato nei verbali del processo, anche i fatti più scabrosi.

    Davanti all’inesorabilità della macchina della giustizia, Osio decise di mandar via da Monza i suoi servi per paura che potessero essere chiamati a confessare; lui stesso riuscì a fuggire da Pavia grazie a connivenze, poi pensò che il luogo più sicuro fosse proprio il monastero a Monza. Con la complicità delle due monache già citate come amiche di Virginia, trascorse qualche giorno nella stanza di una delle due, ma le altre monache si insospettirono a causa del "traffico" di cibo. Era chiaro che un estraneo, forse proprio Giovanni Osio, era nel monastero. Le monache avvisarono il cardinale, che aveva avuto anche altre segnalazioni. Osio, avvertito dalle sue complici, riuscì ancora a scappare e a raggiungere Padova. Virginia, intanto, veniva trasferita in stato di arresto presso il monastero di Sant’Ulderico al Bocchetto per essere finalmente processata. Questo trasferimento non fu però un’impresa facile. Virginia, da fedele figlia di soldato, si ribellò alla cattura e ne nacque una colluttazione assai movimentata nella quale riuscì addirittura a sfilare a una delle guardie venute ad arrestarla la spada con la quale tentò di farsi strada per la fuga, ma tutto fu inutile. Mentre Virginia era in attesa del processo, Osio, nella partenza precipitosa dal monastero, aveva portato con sé le due monache, complici e testimoni di tanti delitti, volendole uccidere al momento giusto. Prima provò con suor Ottavia ferendola gravemente, ma la donna si salvò e confessò tutto presso l’ospedale dove era stata ricoverata. La stessa sorte si ripeté per suor Benedetta: anch’essa venne colpita dal giovane, ma riuscì a fuggire e a confessare, anche lei, tutti i delitti di cui era stata testimone.

    Nel frattempo furono scoperti i cadaveri dei primi delitti. A questo punto il destino era segnato. Osio venne condannato in contumacia. La sua casa fu completamente distrutta dal Governatore di Milano che innalzerà in quel luogo una Colonna chiamata “Infame” ricordata anche dal Manzoni; su di lui venne posta un'importante taglia. Intanto, anche i suoi “bravi” (che avevano commesso materialmente gli omicidi del Ferrari e del Roncino) furono decapitati. Tutti i beni degli Osio furono confiscati e la famiglia fu ridotta alla miseria. A rendere più amara la storia, Giovanni Osio fu ucciso a tradimento da chi credeva un amico, per ragione di taglia. Se ormai per il giovane amante era tutto finito, non così per suor Virginia. Il 27 novembre 1607 si aprì il processo, dove sfilarono tutti i testimoni, come leggiamo negli atti, pubblicati integralmente dalla Curia milanese. Il 18 ottobre del 1608 venne letta la sentenza: Virginia fu condannata a essere murata viva per sempre presso il convento di Santa Valeria.

    La redenzione
    Il Ripamonti scrive nelle sue cronache che la donna accolse la decisione dei giudici come un grandissimo dono, come una specie di liberazione. Per quattordici lunghi anni rimase chiusa nell’angusta cella, quattro metri per tre con un piccolo sfiatatoio per l’aria e la luce. Dopo un percorso di mortificazione e pentimento la potente donna di un tempo era completamente cambiata. La sua sola presenza al di là del muro della cella suscitava non più timore, ma una grande ammirazione e non pochi avvertivano, come riportato dalle cronache, che lì viveva una santa. Tanta venerazione suscitò qualche perplessità anche nel Borromeo che si decise, dopo quattordici anni di reclusione, a incontrarla per capire se ciò che veniva detto corrispondeva a verità. Dopo qualche indecisione si accorse di avere davanti a sé una donna completamente cambiata dalla bontà di Dio e decise la sua liberazione. Già vecchia e malata, era lo spettro di colei che fu la potentissima Monaca di Monza. Viveva in silenzio, in continua preghiera e penitenza; l’unica persona con la quale parlava era proprio il cardinale che da accusatore era ormai un suo estimatore. Da questi colloqui nacque una corrispondenza di sapore mistico che accentuò quell’alone di santità che scaturiva da quella piccola donna. Negli ultimi anni della sua vita fu confortata dalle consorelle e dalla vicinanza del Borromeo: "Ormai - come scrisse lo stesso cardinale - era una donna che non apparteneva più al mondo, ma a qualcosa che dava pace solo a guardarla”. Così, il 7 gennaio del 1650, moriva santamente la monaca benedettina Virginia, al secolo Marianna de Leyva, la “Monaca di Monza”.

    Dal sito : http://wsimag.com/it/cultura/2003-la-monac...dore-di-santita

    Santino-della-Monaca-di-Monza

    E questo è santino dopo la morte di Suor Virginia de Levya, commemorativo in quanto dopo l'uscita dal carcere e dopo avere scontato la sua condanna; la si ritenne per il resto della sua vita redenta e santa
  12. .
    esattamente..................in realtà il grande e oscuro colpevole della disgrazia della figlia è stato quel padre malvagio e senza cuore
  13. .
    Mario-Mazzucchelli-La-Monaca-di-Monza-Ed.-DallOglio
    La descrizione che ne fa Manzoni, carissima Marianna, è sublime con poche parole ti fa capire il tomento , il dolore, il baratro che toccò " questa sventurata " ( come la definisce lui ).
    Grazie a Manzoni che mi " innamorai " di questo personaggio e che iniziai le miei ricerche
    Ti consiglio per approfondire di cercare il libro di cui ti posto la foto è una delle sue prime biografie
    un bacione grande
  14. .
    I tormenti di Carlotta del Belgio


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    Figlia del re del Belgio Leopoldo di Sassonia-Coburgo, la principessa Charlotte nasce a Laeken il 7 giugno 1840 e vive un’infanzia felice fino ai 10 anni. Dopo la prematura scomparsa della madre Luisa d’Orléans subisce passivamente l’influenza religiosa e severa dei suoi educatori che le infonderanno un opprimente senso del dovere in aggiunta a quello già imposto dal titolo nobiliare.

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    Quando nel luglio 1857 sposa a soli 17 anni l’arciduca Ferdinando Massimiliano d’Asburgo, il biondo e affascinante fratello dell’Imperatore Francesco Giuseppe, ella non si aspetta che uno splendido avvenire tra la corte austriaca e l’amatissima Italia.
    Dopo il provvisorio alloggiamento al Gartenhaus, il castelletto nel parco di Miramare, i giovani sposi si trasferiranno nel bianco, incantevole castello sul mare. Ma proprio tra quelle sfarzose stanze l’arciduchessa vivrà i suoi primi tormenti in attesa dell’irrequieto marito sempre alla ricerca di interessanti progetti fra Vienna e Trieste. Dopo soli tre anni di matrimonio la giovane Carlotta s’incupisce e abbandona il letto nuziale per motivi mai chiariti ma che hanno alimentato una serie di sospetti e illazioni sul comportamento libertino di Massimiliano. Certo è che non furono mai esternate critiche o lamentele, anzi, la nobile coppia dichiarò sempre il reciproco affetto anche nel corso delle loro tragiche vicende. Così quando all’arciduca verrà proposta la corona del Messico, affronteranno apparentemente uniti l’ambizioso progetto dedicandovi tutte le loro giovani energie.
    Ma nessuno sarebbe mai riuscito a portare a buon fine quell’insensato compito che incombeva su Massimiliano, inadatto al comando eppur designato Imperatore in uno stato sconvolto dalle insanguinate guerriglie interne. Quando l’imperatore di Francia Napoleone III per scongiurare il pericolo di una guerra con gli Stati Uniti, ritirerà le sue truppe dal Messico, la sorte del giovane sovrano è ormai segnata.

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    Dopo essersi data anima e corpo alla causa di quell’assurdo impero oltreoceano, la povera Carlotta tenterà di chiedere un estremo aiuto alle corti d’Europa. Dopo un torrido viaggio da Veracruz a Parigi e l’umiliante rifiuto di Napoleone III, il 25 settembre 1866 giunge a Roma febbricitante e piena d’angoscia. Dopo essersi prostrata ai piedi di papa Pio IX supplicando l’intercessione con l’imperatore di Francia e ricevuto l’irremovibile diniego, sfinita e disperata esploderà nella prima grave crisi nervosa. Dopo una terribile notte in Vaticano trascorsa in stato di grande agitazione, il 9 ottobre 1866 farà ritorno a Miramare con la mente ormai sconvolta. Inizia a rifiutare il cibo ritenendolo avvelenato, ha crisi di riso convulso, vede gli spettri dei Cavalieri dell’Apocalisse (ricordo del pauroso disegno del Dürer riprodotto in varie edizioni a casa del padre a Laeken), abbandona i suoi svaghi prediletti, percorre turbata e confusa le stanze del castello, corre nei viali del parco o sul moletto della sfinge aspettando l’arrivo del suo Max. Condotta al Gartenhaus (la prima residenza dei giovani sposi) viene rinchiusa in assoluto isolamento tra porte e finestre sbarrate. Per volere dell’imperatore Francesco Giuseppe tutta la corte di Miramare viene sciolta e collocata altrove.
    La giovane sovrana sprofondò così in un lento, progressivo deterioramento che appassì il suo ancora giovane corpo reso probabilmente sterile da una malattia contratta da Massimiliano nei primi anni di matrimonio, quando furono evidenti i suoi comportamenti libertini. Con il tempo le crisi di Carlotta tuttavia si attenuarono concedendole dei momenti di lucidità in cui riemergevano le passioni dei tempi felici.

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    Dopo quei tristissimi mesi di prigionia, ai primi di giugno del 1867 il giornale “L’Osservatore Triestino” riporta due gravissimi fatti: la condanna a morte di Massimiliano e il suicidio di Amalia Stöger, la 33enne moglie separata del tappezziere di Corte e dama di compagnia di Carlotta, impiccatasi in una stanza del castello con 8 giri di laccio intorno al collo. Immediatamente circolarono voci sul suo folle amore verso Massimiliano e il ritrovamento di alcune lettere da lui stesso inviate ne dimostrerebbero la corresponsione. Ancora più inquietante fu l’ipotesi che la Stöger fosse tormentata dai rimorsi per aver somministrato all’imperatrice un veleno che minò la sua ragione. Comunque dopo questo terribile fatto alcuni medici che cercavano di curare la malattia di Carlotta, presero in considerazione l’ipotesi di un possibile avvelenamento avvenuto prima della sua partenza dal Messico. Fu menzionato il “toloache” o “toloatzin” (datura stramonium) oppure il terribile “veleno dei Vaudoux”, una particolare droga del tutto insapore capace di disgregare progressivamente la psiche. Le crisi d’angoscia alternate a uno spasmodico bisogno di solitudine, il rifiuto del cibo e l’ossessione dell’avvelenamento, tutti sintomi manifestati da Carlotta, erano infatti le conseguenze di quella sostanza estremamente tossica. La tesi dell’avvelenamento fu sostenuta dall’illustre neurologo dott. Bolkens, inviato a Miramare dal re Leopoldo II, e dal medico austriaco Riedel, come risulta da un rapporto firmato da Joaquin Garcia Miranda conservato a Madrid e nell’archivio del Consolato di Spagna a Trieste.

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    Il Castelletto ( Miramare ) ai tempi di Carlotta

    Del resto non mancherebbero le supposizioni per spiegare l’inumano trattamento riservato all’infelice imperatrice, forse destinata a essere allontanata dall’abulico e irresoluto Massimiliano per aver intuito le cospirazioni ordite (e forse pagate) dal governo degli Stati Uniti. Meno attendibili sarebbero invece le implicazioni di natura sentimentale, indubbio diversivo del ricco arciduca, e la presunta gravidanza segreta di Carlotta la cui diagnosticata sterilità fu semmai una delle sue afflizioni.
    Le notizie del pietoso stato della povera imperatrice giunsero comunque alla famiglia reale di Bruxelles solo dopo la fucilazione di Massimiliano. Sarà però necessario l’intervento di Francesco Giuseppe per ottenere l’autorizzazione a ricondurla al castello di Laeken dov’era nata e vissuta fino al giorno del suo sventurato matrimonio. Partita da Miramare il 29 luglio 1867, Carlotta non vi farà più ritorno. Solamente nel gennaio1868 verrà informata della morte del marito ma dopo un’inaspettata reazione benefica ripiomberà nella demenza.
    Il 31 marzo 1879 un nuovo fatto sconvolge la famiglia reale belga: un terribile incendio avvolge le stanze del castello di Tervueren proprio durante un soggiorno della trentanovenne imperatrice. Fu la regina Marie-Enrichette a soccorrere la sorella riportandola nuovamente a Laeken. Qui rimarrà fino all’ultimazione del castello di Bouchout (tra Bruxelles e Laeken) che il fratello Leopoldo II aveva acquistato per lei.

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    In questa severa fortezza tardo-gotica, rinchiusa da altissime mura e circondata dall’acqua, la nostra Carlotta trascorrerà in solitudine il resto della sua lunga vita, trovando una certa tranquillità tra le letture, il riordino dei documenti portati dal Messico e le passeggiate nel parco. “Egli era così buono il mio Max! Tutti l’amano tanto…” ripeterà spesso ad alta voce. Ma si potrebbe supporre anche la consapevole rassegnazione al suo destino quando talvolta avvertirà i suoi interlocutori: “Non fate attenzione, signore, se si sragiona… Un grande matrimonio, signore, e poi la follia. Ma la follia è fatta dagli avvenimenti…”.

    Alle 7 del mattino del 19 gennaio 1927, dopo un indebolimento generale, una paralisi alle gambe e un’agonia di 28 ore, Carlotta raggiungerà finalmente la sua pace.
    Il 22 gennaio la sua bara bianca circondata dai fiori attraverserà le tristi brume coperte dai fiocchi di neve per essere tumulata nella cripta reale di Notre-Dame di Laeken.

    (Oscar de Incontrera “L’ultimo soggiorno dell’Imperatrice Carlotta a Miramare” 1937, Biblioteca di Storia e Arte, Palazzo Gopcevich, Trieste)

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    dal sito : http://quitrieste.it/i-tormenti-di-carlotta-del-belgio-2/
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316 replies since 30/12/2010
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