La Monaca di Monza : Venere in convento di Roberto Gervaso

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    Bravissima :wub: Non smettere mai di arricchire il nostro sapere :)
     
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    CITAZIONE (*Marianna* @ 22/1/2016, 10:58) 
    Bravissima :wub: Non smettere mai di arricchire il nostro sapere :)

    va bene
     
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    L’infanzia di Marianna De Leyva, la Monaca di Monza


    M-Monza_Gonin


    Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. (Salmo 138,15)

    Di fronte alle vicende esistenziali di Marianna De Leyva, meglio conosciuta come “la monaca di Monza”, viene, inizialmente spontaneo chiedersi se, a determinare la triste esistenza di sr. Virginia, non influì (almeno in parte) anche la sua condizione storica e sociale.
    Infatti, è vero che “È uno dei caratteri più ammirabili e più divini della religione cristiana, di potere in qualunque circostanza dare all’uomo che ricorra ad essa, un rimedio, una norma, e il riposo dell’animo” e che “Quegli stesso, che per violenza altrui o per suo fallo, o per sua malizia s’è posto in una via falsa può ad ogni momento approfittare di questi beneficj. Poiché, se la via ch’egli ha intrapresa è… difficile, pericolosa, spiacevole, ma senza adito al ritorno, da questa stessa dura necessità di proseguire in essa, la religione cava un motivo e dei mezzi per renderla regolare, praticabile, sicura, diciamolo pure arditamente, soave e deliziosa” e che quindi “Con quest’ajuto Geltrude a malgrado della perfidia altrui, e dei suoi errori d’ogni genere avrebbe potuto divenire una monaca santa, e contenta” (Manzoni: Fermo e Lucia). Ma è vero anche che, il contesto sociale in cui visse fin dall’infanzia, non solo non le fu di alcun aiuto per poter giungere a tale risoluzione, ma bensì la orientò in tutt’altra direzione.
    Ma poiché il Signore sa scrivere diritto anche sulle righe storte, come vedremo alla fine, tra gli “esempj… di donne che strascinate al chiostro con l’arte e con la forza, e dopo d’essersi per alcun tempo dibattute come vittime sotto la scure, vi trovarono la rassegnazione e la pace” (Manzoni: Fermo e Lucia) possiamo annoverare anche la nostra sr. Virginia De Leyva.

    Milano-Palazzo_Marino-Comune0077

    Milano_-_Palazzo_Marino,_Sala_Alessi_09
    Palazzo Marino Milano dove nacque Marianna de Levya

    Vediamo, allora, la sua storia.
    Marianna, nasce nel 1575, da don Martino De Leyva e da donna Virginia Marino (che all’epoca del matrimonio con don Martino, era vedova con cinque figli). Il matrimonio non fu, per don Martino, privo di interessanti risvolti economici. Donna Virginia, infatti, era figlia, nonché erede, di uno dei più facoltosi uomini di Milano, il banchiere Tommaso Marino egli accordi matrimoniali stabilirono che Virginia avrebbe portato in dote 50.000 scudi (che furono poi commutati nel possesso di buona parte di palazzo Marino – una “quota” di valore equivalente se non superiore alla cifra pattuita. Ciò permise a don Martino di poter aspirare, a cariche di prestigio (cosa per la quale erano necessari molti soldi).
    Marianna, prima ed unica figlia della coppia, nasce l’anno successivo al matrimonio.
    La madre muore di peste quando Marianna ha circa un anno. Prima di morire ella fa testamento a favore di Marianna e Marco Pio (il maggiore dei 5 figli nati dal suo primo matrimonio) lasciandoli eredi al 50%. Il testamento è immediatamente impugnato dalle sorelle di Marco Pio (qualcuno sostiene anche dallo stesso don Martino) che chiedono un inventario dei beni.
    La causa riguardante l’eredità Marino prosegue e nel 1580, il padre di Marianna accetta un compromesso con le sorelle di Marco Pio: di 12 parti dell’eredità, 5 vanno a Martino e alla figlia, 7 ai figli di primo letto. Già questo si può ben considerare “un furto” nei confronti della piccola Marianna; ma il padre non si ferma qui.
    Secondo il racconto del Manzoni, Gertrude è destinata al chiostro fin dalla nascita. Questo non sembra, invece, essere stato il destino iniziale di Marianna. Prova di ciò è una lettera del padre (del 1686) in cui egli parla della dote di Marianna, riguardo ad un eventuale matrimonio, che dovrebbe ammontare a 7000 ducati, pari a 33860 lire imperiali).
    Con tutta probabilità, il “cambiamento di prospettiva” avviene nel 1688 quando il padre si risposa con una nobildonna spagnola -Anna Viquez De Moncada- e Marianna diventa “scomoda” per don Martino (sia per quanto riguarda la sua nuova situazione familiare che, forse soprattutto, per le sue mire “carrieristiche” e… “pecuniarie”). Ecco allora la decisione di destinarla al chiostro (dotandola di una dote di 6000 lire imperiali: l’ulteriore “furto pecuniario” perpetrato dal padre ai danni della figlia è dunque, apparentemente, di 27860… in realtà totale in quanto il padre non verserà nemmeno questa cifra al notaio cui avrebbe, stando agli accordi, dovuto consegnarla in deposito). Mariana entra dunque in monastero con una promessa di dote ma “ereditando”, in realtà, solo il nome della sua illustre casata (come il Manzoni stesso, nel Fermo e Lucia, farà laconicamente e amaramente dire a Geltrude: “… io non ho da essi ereditato che il nome…”).
    Anche se inizialmente il destino di Marianna non combaciava con quello della Geltrude manzoniana, non molto difforme doveva essere il padre di Marianna da quello di manzoniana memoria di cui Manzoni ci fornisce una “superba descrizione” nel Fermo e Lucia.
    Scrive infatti il nostro autore: “Il Padre della infelice di cui siamo per narrare i casi, era per sua sventura, e di altri molti, un ricco signore, avaro, superbo e ignorante. Avaro, egli non avrebbe mai potuto persuadersi che una figlia dovesse costargli una parte delle sue ricchezze… superbo, non avrebbe creduto che nemmeno il risparmio fosse una ragione bastante per collocare una figlia in luogo men degno della nobiltà della famiglia: ignorante, egli credeva che tutto ciò che potesse mettere in salvo nello stesso tempo i danari e la convenienza fosse lecito, anzi doveroso;… erano questi nelle sue idee, i talenti che gli erano stati dati da trafficare, e dei quali gli sarebbe un giorno domandato ragione”.
    In questa ottica va vista anche l’educazione religiosa che Geltrude (e quindi anche la nostra Marianna) dovette ricevere.
    Marianna trascorre i primi anni a Palazzo Marino, nella più totale assenza degli affetti familiari, affidata alle cure di una balia con la “sovrintendenza” della zia paterna, donna Marianna De Leyva Soncino, donna terribile e di una religiosità oltremodo bigotta quanto autoritaria (basti dire che obbligò un figlio a divenire Carmelitano e, in punto di morte fece giurare al marito di abbandonare tutto e tutti per farsi cappuccino, a prendere il nome da religioso di Ambrogio e a recarsi in Marocco e in Algeria a predicare il Vangelo, nelle terre di missione, ai “miscredenti” e che rifiutò di allevare direttamente lei la nipote, per il solo motivo che, avendo ella solo figli maschi, non riteneva “cosa moralmente accettabile” che una fanciulla, per quanto infante crescesse “in promiscuità” con i suoi figli).
    Ma qual’era la “religione” insegnata a Marianna?
    Sempre il Manzoni, parlando di Geltrude (ma le medesime considerazioni valgono appieno anche per Marianna De Leyva) ci informa, poi, che: “quanto alla Religione, ciò che è in essa di più essenziale, di più intimo,… non era stato mai istillato né meno insegnato alla picciola Geltrude; anzi il suo intelletto era stato nodrito di pensieri opposti affatto alla Religione… i parenti di Geltrude l’avevano educata all’orgoglio, a quel sentimento cioè che chiude i primi aditi del cuore ad ogni sentimento cristiano, e gli apre a tutte le passioni. Il padre principalmente,… si era studiato di far nascere nel suo cuore quello della potenza e del dominio claustrale”.
    La piccola Marianna cresce in un clima in cui la Religione e la fede sono viste e vissute come una serie infinita di formalistiche pratiche, di consuetudini e precetti morali e sociali che si intersecano ed influiscono “tout court”. Il rapporto con Dio è dunque freddo, impersonale e “distanziato”. La “Ragion di Stato” (ovvero i doveri del censo) è il cardine portante attorno al quale Marianna vede ruotare tutta l’esistenza della sua blasonata famiglia.
    Date queste “basi” educative, lo sviluppo della costruzione della coscienza religiosa della nostra fanciulla non potrà dunque che essere precario e soggetto all’influenza dei “molti venti… ed eventi”.


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    Dal sito : L’infanzia di Marianna De Leyva, la Monaca di Monza
     
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    È una figura storica triste che può soltanto suscitare sincero compianto per le sue sventure...
     
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    L'ingresso in Monastero

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    La futura Monaca di Monza relegata nella casa paterna

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    Marianna acconsente di entrare in convento

    Marianna De Leyva cresce nello "splendido isolamento" di Palazzo Marino, ovvero in un palazzo esteticamente magnifico, ma sola ed in un "clima familiare" privo di ogni ben che minimo calore umano, affidata a balie e precettori, forse anche a qualche educandato, senza mai sperimentare la gioia e il calore di un rapporto affettivo autentico (cosa che, come vedremo in seguito, avrà profonde risonanze sia nel suo rapporto amoroso con Gian Paolo Osio, sia nel suo rapporto materno con Francesca, la figlia avuta dall'Osio), e, una volta entrata in religione, si trova a vivere in un monastero, quello di S. Margherita, che gli storici definiscono "tetro e uggioso"
    Se tale è l'atmosfera che ha caratterizzato la sua crescita umana ed intellettiva, non dissimile è stata anche la sua educazione religiosa.
    Siamo, infatti, nel seicento, in un ambiente fortemente "filo ispanico", dove l'atmosfera rigida e inflessibile della Contro Riforma cattolica era imperante. Questo deve aver sicuramente influito sul tipo di educazione religiosa ricevuta da Marianna (tramite le diverse persone che hanno contribuito alla sua crescita e formazione).
    Inoltre, anche se inizialmente Marianna sembra essere destinata al matrimonio, non è altresì da escludersi la possibilità che, un' educazione orientata in tal senso, sia stata contemporaneamente affiancata da un'altrettanto "scrupolosa" educazione finalizzata al chiostro. (non dimentichiamo infatti la "nefanda" presenza a Palazzo Marino, di quella "religiosissima", terribile zia, piena di scrupoli e "fobie religiose").
    Notiamo, poi, che sono cause "contingenti" (economiche e sentimentali, aggiunte alle mai soppresse ambizioni nell'ambito della carriera militare) quelle che spingono il padre di Marianna ad "immolarla", votandola al Chiostro, nell'intento di liberarsi, "senza troppa spesa" di una figlia divenuta "scomoda".
    Il mero calcolo umano, privo di ogni aspetto religioso, spinge perciò, don Martino ad indirizzare la figlia verso la vocazione monastica e la semplice adesione ai voleri paterni porta la tredicenne Marianna a "varcare la soglia" claustrale e a divenire, poi, "monaca per sempre".
    È così che, Marianna entra nel Monastero di S. Margherita in Monza.
    Monza era, all'epoca, una cittadina di 5730 anime circa, di cui i De Leyva erano feudatari, cosa questa che assicurava a Marianna un prestigio indiscusso, e, di conseguenza, una posizione di privilegio e di assoluto rispetto, anche tra le mura monastiche. Di ciò doveva esserne certo, e ne era sicuramente convinto, il padre, il quale, poiché, come ci informa Manzoni, "non desiderava che la sua figlia fosse infelice, ma semplicemente ch'ella fosse monaca", deve aver senza dubbio tenuto conto di questo nello scegliere il monastero nel quale "collocare" la figlia e deve aver giudicato, di conseguenza, quello di Monza, "il luogo più adatto" affinché il "prestigio" della famiglia fosse rispettato e onorato secondo le vigenti "norme sociali". È sempre in quest'ottica, non è cosa da scordare, che, nell'educazione impartita da don Martino alla figlia (o, più precisamente, dai vari educatori da lui preposti alla formazione di Marianna), l'accento era stato posto pressoché esclusivamente sul prestigio che ella, in qualità di Madre Badessa, avrebbe esercitato in monastero, alimentando così, nell'animo della giovinetta, "l'orgoglio di casta", la "fierezza di carattere", … e quant'altro potesse contribuire a presentarle il Monastero, non come "casa del Signore" ma quale "feudo" su cui ella avrebbe "regnato". Niente di più lontano da ciò che è l'essenza intrinseca della vita religiosa nonché della stessa vita cristiana.
    Qui, dunque, nel monastero di S. Margherita, il 15 marzo 1589, all'età di tredici anni, nel pieno rispetto delle norme canoniche che ponevano come limite minimo per la vestizione il dodicesimo anno, Marianna veste l'abito religioso ed inizia il noviziato, assumendo, in ricordo della madre morta, il nome di sr. Virginia Maria.

    Dal sito : www.culturacattolica.it/default.asp?id=191&id_n=5406

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    il convento di S. Margherita a Monza dove entrò Virginia

    monaca_monastero
    foto d'epoca del convento dove entrò Virginia il convento venne poi demolito; a Monza esiste ora una via chiamata della Signora che costeggia il muro rimasto del convento.

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    Virginia da piccola che gioca con le bambole vestite da Monaca
     
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    I primi anni in Monastero

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    dallo sceneggiato RAI " La Monaca di Monza "

    Marianna De Leyva entra nel Monastero di S. Margherita in Monza, il 15 marzo 1589, all'età di tredici anni.
    Il monastero di S. Margherita era, allora, come ce lo descrive uno storico dell'epoca, "tetro, uggioso, profondamente malinconico… Per la speciale disposizione dei singoli locali, quel povero monastero, non aveva un punto solo dal quale la vista potesse ricrearsi d'uno sguardo ai monti, all'orizzonte, all'aria libera. Era per così dire chiuso da ogni parte, ché alla destra il giardino della casa degli Osii tutto lo circondava colle alte piante, a mattina i locali rustici del cenobio toglievano quel poco di passaggio che avrebbe potuto dare la muraglia della città, a mezzodì la chiesa tutto ostruiva ed a ponente infine la porta d'ingesso con tanto di chiavistello".
    Eppure, nonostante tutto ciò che di negativo ha caratterizzato la sua infanzia e la sua fanciullezza, nonostante i motivi "prettamente umani" che l'anno indotta a "prendere il velo", Marianna sembra essere cresciuta, almeno apparentemente, piuttosto bene, dato che il Ripamonti, descrivendola ormai sedicenne, perciò appena prima o appena dopo la Professione religiosa avvenuta il 12 settembre 1591 (e questa volta, a voler essere "pignoli", non proprio nel "pieno rispetto" delle norme canoniche che, stando ai dettami del Concilio Tridentino, stabilivano i sedici anni compiuti – mentre Marianna, il 12 settembre di anni ne contava precisamente quindici e dieci mesi- il limite minimo per poter emettere la Professione religiosa), dirà di lei: "era la de Leyva modesta, circospetta, affabilissima, soffusa di un invidiabile candore, amica con tutte, delle discipline letterarie istrutta, come lo poteva essere in allora una giovinetta ben educata, obbediente, per nulla dispettosa, esempio di contegno sociale perfetto."
    Tale opinione sembra, poi, trovare conferma nelle deposizioni rese al processo da sr. Teodora, sua compagna di noviziato, che, si dichiarava incredula riguardo ai fatti occorsi tra l'Osio e sr. Virgina, testimoniando che, all'epoca del noviziato, ella era, "invidiosa della sua santità".

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    dallo sceneggiato RAI " La Monaca di Monza "

    M. Mazzucchelli avanza anche l'ipotesi che la vita in monastero, nei primi tempi almeno, non debba riuscirle poi neppure tanto "sgradita" dato che, tale collocazione deve averle permesso di stare con altre giovani della sua età e, quindi, di rapportarsi con coetanee intessendo, con esse, legami di amicizia (cosa mai concessale prima dato "l'isolamento" e la solitudine di Palazzo Marino dove, unica fanciulla, era cresciuta sola, circondata solo da adulti che, per lo più, le erano accanto solo per "dovere" (pensiamo ai domestici, alle balie e ai precettori…) e le tributavano di conseguenza quell'affetto ossequioso e piuttosto freddo che le era dovuto per la sua condizione sociale di "signorina".
    Un altro "colpo" attende però, anche in monastero, la nostra infelice: due giorni avanti la sua Professione le monache sono costrette a concedere a Giuseppe Limiato, la persona presso la quale don Martino avrebbe dovuto aver depositato le "seimila libbre imperiali" costituenti la dote della figlia, una dilazione di due anni. Il padre anche in questo caso si era dimostrato, oltre che di una grettezza inqualificabile e di un'avarizia insaziabile, indifferente verso la figlia.
    In queste circostanze, ben si potrebbe, in un certo senso, applicare a Marianna il verso 10 del Salmo 26 "Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto"(salmo 26,10) in quanto la madre l'aveva "lasciata" morendo; il padre si era sempre disinteressato completamente di lei (ciò che unicamente gli stava a cuore erano i soldi della figlia e l'unico suo interesse nei suoi riguardi era, di conseguenza, il come riuscire a sottrarglieli) ma il Signore l'amava e, attraverso l'ingresso in monastero (poco importa che esso sia avvenuto per disposizioni umane anziché quale risposta ad un'interiore chiamata divina: il Signore sa servirsi anche degli errori umani per indirizzare al bene), le forniva il modo ed i mezzi per crescere nel Suo amore, all'ombra delle Sue ali (ma, come abbiamo visto, Marianna non era certo facilitata, dalla formazione ricevuta, ad orientarsi verso questa determinazione felice).

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    dallo sceneggiato RAI " La Monaca di Monza "

    Marianna, ormai sr. Virginia, inizia così, la sua vita religiosa. Ha, alle spalle, una certa istruzione nelle "discipline letterarie", appare "modesta, affabilissima, sembra dotata di buon carattere e mostra un "contegno sociale perfetto" ma, quanto a religiosità, guardando al suo passato, non ci sembra di poter arguire "nulla di buono" o almeno "promettente". Quella di Marianna era una religiosità imperniata su di un pressoché totale formalismo esteriore formato da un indefinito numero di pratiche da compiere o di tradizioni da rispettare e da una miriade di scrupoli di coscienza perennemente presenti. Di un rapporto personale con Dio, sentito come Padre, neppure a parlarne. L'esempio di "paternità", fornito da don Martino alla figlia era stato più che deleterio e l'amore materno, era stato a lei precluso dalla prematura morte della madre. Marianna era cresciuta con la pessima influenza della zia e, di conseguenza, anche una volta divenuta sr Virginia non poteva che continuare a sentire Dio come un Signore "terribile" e "lontano".
    La sua devozione era probabilmente anche sincera. Sr. Virginia era certo convinta che la fede consista realmente in tutto ciò che le era stato "inculcato" fin dalla più tenera età ma, questa fede fredda che aveva imparato a vivere in famiglia, non le scaldava veramente il cuore e non era diventata "parte integrante e sostanziale" della sua vita. La sua "buona fede", nel vivere la fede come le era stata trasmessa, non le sarà così sufficiente, non riuscirà a guidarla nella vita, a sostenerla nella tentazione e a condurla "incolume" attraverso le vicende alterne della sua travagliata esistenza. La sua religiosità non riuscì, in una parola, a farle comprendere che Dio la amava immensamente, le era accanto in ogni istante e che poteva, quindi, affidarsi a Lui e contare sul suo aiuto in ogni circostanza e situazione interiore si trovasse.
    In tale religiosità, vissuta più come "pratica" che come "intimo colloquio con Colui che riempie il cuore", ben presto si fanno largo, fino a diventare "irresistibili", le tentazioni e i "rimpianti".
    La monotonia della vita claustrale diviene sempre più pesante e anche a sr. Virginia parrà, forse, che "da la torre di piazza, roche per l'aere le ore gemon, come sospir d'un mondo lungi" da tutto ciò che avrebbe potuto essere e non fu e, per lei, non sarà mai e che "cinereo" sia il "ciel" della sua vita monastica. Sr. Virginia, probabilmente, si "strugge dentro" sebbene, "fuori", resista e appaia "una suora modello" … forse anche troppo "esemplare" per non far sospettare qualche "rigidità interiore" e far sorgere il dubbio che, il suo comportamento, obbedisca più a una ferrea forza di volontà che a un'autentica convinzione interiore.
    Delle liceità di tali supposizioni sembra darcene conferma Cesare De Lollis secondo il quale, Geltrude (ma, come abbiamo visto, possiamo tranquillamente equiparare, in questo caso, la figura letteraria della Signora con quella storica), è destinata a "cadere" perché costretta e schiacciata da "le superstizioni del suo tempo, la tirannia della famiglia, le predisposizioni naturali, tutte forze di prim'ordine che, combinate insieme, non possono condurre che alla catastrofe".
    Ma i primi anni di vita religiosa, per sr. Virginia, non sono affatto da "catastrofe". Ella, infatti, è stimata sia dalla gente del circondario che dalle monache e riesce a "conciliare" egregiamente i compiti a lei assegnati quale suora (sagrestana e addetta alle "putte secolari", cioè maestra delle educande) con il suo ruolo di feudataria (ruolo che, in assenza del padre, non disdegna affatto di esercitare, cosa questa che, come vedremo, unitamente al fatto di essere preposta alle educande, avrà le sue ripercussioni nel sorgere del rapporto con l'Osio).

    dal sito : www.culturacattolica.it/default.asp?id=191&id_n=5407
     
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    Ho visto questo film :) molto bello e commovente!
     
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    Inizio della relazione con l’Osio: "Odi et amo"

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    All'età di 22 anni circa, sr. Virginia, oltre che sacrestana, diviene maestra delle educande.
    Un giorno si accorge che, una delle fanciulle a lei affidate, certa Isabella Degli Ortensi, amoreggia con il bel vicino, Gian Paolo Osio, appunto.
    Leggiamo, infatti, nella dichiarazione processuale rilasciata da sr. Virginia: "Detto Gio. Paolo Osio faceva l'amore con la signorina Isabella Ortensia secolare, la quale era nel monastero in dozena et Havendo io trovato che stavano guardandosi l'uno e l'altro alla cortina delle galline, gli feci un gran rebuffo che portasse così poco rispetto al monastero, massime che detta giovane era data in mia custodia … et esso andò via bassando la testa senza dire altro".
    Ma chi era Gio. Paolo Osio?
    "L'Osio, - ci informa Paccagnini - figlio di Sofia Bernareggi e di un altro Gio. Paolo, "è un bel giovine", "ricco e ozioso. … Frequenta amicizie altolocate… si dimostra solvente coi creditori, sembra inoltre in possesso di una qualche educazione umanistica, è "molto ben conosciuto" dalla Superiora del monastero di S. Margherita, suor Francesca Imbersaga, e anzi è "amico del convento", che si serve spesso dei suoi stessi servitori per le proprie commissioni".
    La notizia del "gran rebuffo" fatto da sr. Virginia a Gio Paolo si diffonde e, inutile dirlo, il fatto suscita "clamore" (non tanto, forse, per la cosa in sé, quanto per il "nome" dei protagonisti implicati).
    L'educanda, Isabella, viene immediatamente tolta dal monastero dalla madre che, con tutta probabilità, "ben consapevole" di quale "influenza sociale" avesse la casata dei De Leyva, ed in Monza particolarmente, teme un possibile "scandalo" che potrebbe "diffamare" il buon nome della figlia e della famiglia e perciò, fa in modo di maritarla nel più breve tempo possibile: 15 giorni.
    I pettegolezzi sull'accaduto, però, devono riuscire "sgraditi" anche a "qualcun altro" ed è così che, pochi giorni dopo questi fatti, in Monza, viene trovato morto (ucciso da un archibugiata) un certo Molteno, agente fiscale dei De Leyva.
    Pur "in assenza di testimoni oculari", il fatto viene immediatamente collegato da tutti a quanto accaduto al monastero di S. Margherita e, sebbene un semplice "rebuffo", sia una motivazione un po' troppo "leggera" per un omicidio, anche per un tipo "orgoglioso" qual è Gian Paolo, l'Osio, quest'ultimo è subito sospettato di esserne stato il mandante ed egli è quindi costretto a rimanere "rintanato in casa".

    MEZZOGIORNO2

    L'Osio, dunque, "retirato nel suo giardino quale è contiguo alla muraglia del monastero" -come dirà sr. Virginia, parlando di quell'episodio durante il processo - "inganna" il tempo anche guadando verso le finestre delle suore ed è proprio questo "passatempo" che lo porta a "incrociare lo sguardo della Signora".
    Sr. Virginia, al processo, testimonierà che: "ritrovandomi a caso nella camera di sor Candida Brancolina vicino alla mia quale aveva una finestra che rispondeva in detto giardino vedendomi lui a quella finestra mi salutò, et dopoi essendo io andata un'altra volta a quella finestra, tornò a salutarmi et mi accennò di volermi mandare una lettera".
    Sr. Virginia è (o mostra di essere tale) offesa da tanta "sfrontatezza" e la sua reazione, a questo punto, diviene "tutt'altro che tenera": "io - prosegue sr. Virginia durante il processo - che ero in collera con lui per l'homicidio sudetto e vedendolo così avanti agli occhi e parendomi che strapazzasse la giustizia ne feci avvisato al signor Carlo Pirovano, più volte, a finché lo mandasse a pigliare e metterlo pregione".
    L'Osio è costretto a fuggire da Monza e a rimanervi lontano per circa un anno.
    Nel frattempo, molti, tra parenti e amici, si mobilitano e si premurano di recarsi al Monastero per tentare di far pressione sulla Signora, affinché "perdoni" il giovane e sospenda la pena inflitta, permettendogli così di tornare a casa.
    Sr. Virginia si mostra dapprima inflessibile, anche con la stessa madre dell'Osio e, a suo dire, cede, concedendo a Gian Paolo il perdono, e quindi il permesso di ritornare in Monza, solo perché la Madre Superiora glielo ha comandato "sotto pena dell'obbedienza" (ecco perché, quasi a mo' di battuta, avevamo detto che, conoscendo lo svolgersi successivo dei fatti, si poteva ritenere "galeotto" anche chi aveva affidato a sr. Virginia quell'ufficio, cioè la Superiora, la quale, dopo averle affidato il compito di Maestra delle educande, l'aveva "costretta" a perdonare all'Osio permettendogli così di tornare a vivere "attiguo al monastero". A onor del vero, però c'è anche da dire che, dati gli atteggiamenti assunti in altre occasioni da sr. Virginia nei confronti di M. Francesca Imbersaga, qualcuno suppone che più che l'imposizione della Superiora abbiano contribuito alla decisione le pressioni dei De Leyva, fratellastri di sr. Virginia e amici di G. Paolo).
    Fatto sta che, comunque siano andate le cose, il perdono è accordato e l'Osio può tornare alla sua abitazione monzese, nel suo giardino confinante col monastero, a spiare la bella Signora, la quale, ora, anche se ancora non lo dà pubblicamente a vedere, inizia però a mostrarsi sensibile a tali attenzioni.



    Ce ne dà la prova sr. Ottavia che testimonia al processo quando asserisce che, Sr. Virginia, vedendo dalla finestra della sua camera G. Paolo, passeggiare nel giardino, esclamò: "si potria mai vedere la più bella cosa", riferendosi alla persona dell'Osio.
    È così che sr. Virginia accetta di ricevere una lettera che l'Osio, dal suo giardino, getta in quello del monastero, ma… la missiva si rivela "disastrosa": L'Osio aveva scritto a sr. Maria una lettera "focosa" a cui ella risponde in modo altrettanto deciso quanto sdegnato.
    Entra allora in scena il prete Paolo Arrigone (essere "abbietto", parroco della chiesa vicina oltre che amico e confidente dell'Osio), il quale "spiega" a G. Paolo che per conquistare "la Signora" deve attuare "tutt'altra tattica" e scrive, a nome dell'Osio, una lettera in cui, dopo aver chiesto scusa per il precedente ardire, si mostra ossequioso e deferente.
    Sr. Virginia "ci casca" e, inizia uno scambio di missive "pure e caste" e alcuni doni altrettanto "innocenti" (ma che, inevitabilmente, "allargano il cerchio" delle persone "implicate") e - poiché "certe manovre", non potevano passare inosservate, né all'interno delle mura claustrali né all'esterno - iniziano a sorgere… "alcune dicerie e mormorazioni sussurrate").

    Dal sito : www.culturacattolica.it/default.asp?id=191&id_n=5412
     
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  11. Bianca Serena
     
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    "Odi et amo"
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  13. Marzia1969
     
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    Interessantissimo, grazie!
     
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  14. Bianca Serena
     
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    La relazione con l’Osio: un’alternanza di desiderio e rimorso, passione e timore

    giovannipaoloosio

    La storia di una relazione in monastero, è una notizia troppo scottante (oltre che "intrigante" e "ghiotta") per poter passare sotto silenzio, soprattutto se si tiene presente chi erano i protagonisti: niente di meno che la bella feudataria e il giovane conte Osio, suo vicino di casa, il quale, per di più, aveva la fama di essere un incorreggibile scavezzacollo e un infaticabile rubacuori.
    Si tenta di "smorzare" tali dicerie, mettendo in giro la voce che Gian Paolo intenda farsi religioso e che, quindi, quella con sr. Virginia, è un'amicizia squisitamente spirituale, generata e sorretta dal comune desiderio di tendere a Dio.
    Nessuno, però, ovviamente, ci crede (non fosse altro che per i trascorsi libertini dell'Osio e la sua fama di dongiovanni), sebbene, come testimonia sr. Costanza (la quale, in qualità di "ascoltatrice" era presente) nei vari incontri in parlatorio, l'Osio "parlava molto modestamente et diceva… parole di compimento, et pareva che egli havesse un gran rispetto".
    Sr. Virginia, in cuor suo, sa che ciò che sta facendo "è male", poiché, come Manzoni ben evidenzia nelle Osservazioni sulla Morale Cattolica, "le verità della fede e la legge morale sono naturalmente scolpite in ogni animo".
    Sr. Virginia, dunque, sa di "essere sulla via dell'errore", ma, ciononostante, non riesce a farne a meno di spiare segretamente l'Osio, quando egli si trova nel suo giardino e di intrattenere con lui una tenera amicizia fatta di affettuose missive e doni scambiati.
    Non è che ella non tenti in alcun modo di reprimere quest'affezione, ma ogni sforzo sembra cadere nel vuoto.
    Leggiamo, infatti, nella sua deposizione al processo: "essendomi detto … che detto Osio stava nel giardino, io mi sentij venire uno desiderio di vederlo e perché feci forza a me stessa, venni manco sopra una cassa e questa cosa più e più volte mi è intervenuto…".

    fuga-3


    Seguono altri scambi di doni (tra cui un crocifisso d'argento che, inizialmente sr. Virginia "rimanda al mittente, ed una "calamita battezzata", che sarà, poi, al centro delle vicende processuali), lettere che trattavano "di santità et purità e dell'amore et intenzione sua (dell'Osio) che era pura e netta" e alcuni incontri in parlatorio in cui l'Osio "mostrò quella maggiore modestia che si potesse più immaginare".
    Nel frattempo, l'Osio, chiede ed ottiene un primo incontro, notturno e segreto, nel "parlatorijno del confessore", ottenendo la chiave per accedervi da sr. Ottavia (amica e confidente di sr. Virginia) la quale "la buttò dal giardino delle monache per di sopra del muro in strada al detto Osio e così esso entrò…".
    A seguito di quest'incontro, sr. Virginia si ammala (forse per gli angoscianti rimorsi che certo devono averla presa dopo l'accaduto? Non è da escludersi).
    L'indisposizione dura diverso tempo, accompagnata dai propositi di sr. Virginia di non rivedere più Gio. Paolo (anche se egli, nel frattempo, continua ad "assediarla" con doni e missive). Quando, però, si ristabilisce gli incontri sulla porta della clausura riprendono e, a questo punto, l'Osio, dopo ulteriori scambi di regali, incontri notturni in parlatorio e alcuni "dentro dalla prima porta del monastero", cioè sulla porta, aperta, della clausura (Gio. Paolo fuori e sr. Virginia dentro) e sempre con la complicità di sr. Ottavia e sr. Benedetta (altra amica della Signora).
    Anche in questi incontri i due giovani parlano sempre di "cose di creanza" sebbene, l'Osio, ad un certo punto, dichiari a sr. Virginia che ci "si poteva baciare adducendo un'autorità di S. Agostino et con bel modo". Sempre sulla scia di quanto asserito, chiede di poter entrare all'interno del monastero. Sr. Virginia si oppone dichiarando che non voleva che entrambi incorressero nella scomunica, ma, anche questo "dilemma di coscienza" viene dall'Osio superato inviando a sr. Virginia il Graffio "un libro in stampa – come testimonia sr. Virginia – quale è un libro che tratta di casi di coscienza e di penitenza… qual libro conteneva, per quanto mi disse (il libro, infatti è in latino, lingua che sr. Virginia non conosce, ed ella "accetta", quindi, per vera la traduzione che le fornisce l'Osio) che non era scomunica a lui l'entrare nel monastero ma bene era la scomunica alla monaca all'uscire dal monastero, quel libro era del detto prete Paolo Arrigone". Sr. Virginia, però resta perplessa e il tempo passa.

    giampaolo-osio-egidio-e-monaca-di-monza

    Trascorre l'estate. Sr. Virginia continua ad essere titubante ma poi cede. A Natale, l'Osio ottiene, così, di entrare in monastero e, quindi, nella camera di sr. Virginia. Nonostante le continue remore morali, gli incontri, man mano, si intensificano, fino a giungere a due o tre alla settimana.
    A seguito di ciò, sr. Virginia resta gravida. Questa prima gravidanza si conclude con la nascita di "un putto morto" che sr. Ottavia e sr. Benedetta consegnano "a suo padre che lo portò fuori dal monastero… e lo portò fuori la notte seguente che egli entrò nel monastero et nella camera di sr. Virginia Maria che la visitò e poi si partì".
    Dopo il parto, sr. Virginia è presa da un profondo stato di prostrazione psico-fisica e da intensi rimorsi. Le crisi di coscienza, che accompagnano tutto il suo rapporto con l'Osio, si acuiscono fino a portarla, nel tentativo di liberarsi "da questa affezione", prima alla pratica magica della coprofagia (mangiare gli escrementi dell'amato) e, poi, sull'orlo della disperazione, a decidere di gettarsi nel pozzo del chiostro per suicidarsi (dal tentato suicidio la salva l'immagine della Vergine che la fa esitare, permettendo così a sr. Ottavia di giungere in tempo e di distoglierla da tale nefando proposito).
    Decisa a por fine a questa relazione, delibera di non rivedere più Gio. Paolo e, a tal scopo, intensifica preghiere e penitenze corporali "quanto era humanamente possibile", fa pregare e manda doni e offerte votive a diversi santuari (tra i quali, la citata tavoletta votiva alla Madonna di Loreto, raffigurante "un puttino et una monaca in genochio").
    Inizialmente, i propositi di sr. Virginia sembrano tenere e così ella vive, per alcuni mesi, un periodo di tranquillità interiore.
    L'Osio, nel frattempo, sebbene non cessi di protestare a sr. Virginia il suo amore e il suo desiderio di riprendere i loro incontri amorosi, intraprende (sembra su invito insistente di sr. Virginia stessa) un pellegrinaggio, prima a Loreto e poi a Roma (qualcuno sostiene che a Roma vi si sia recato, sempre su pressione di sr. Virginia, per confessarsi dal S. Padre e farsi assolvere da lui di essere entrato in monastero e… di quanto successovi).
    Quando torna da Roma, però, Gio. Paolo "volea tornar dentro al solito" ma sr. Virginia "gli diede ripulsa con dire che non lo voleva più et così per quattro mesi continui stette che non lo volse di dentro".
    Ma i "buoni propositi", vengono infine vanificati a causa della corte serrata che l'Osio continua a farle, tramite lettere e doni, e sr. Virginia accetta ancora di introdurre l'Osio nella sua stanza. Resta così gravida per la seconda volta e a mezzogiorno di domenica 8 agosto 1604, nasce Alma Francesca Margherita.

    Dal sito : www.culturacattolica.it/default.asp?id=191&id_n=5413


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    clugoij3ab1

    scusate se ultimamente sono un pò assente dal forum e anche dall'Associazione, ma sto compilando il mio albero genealogico ( in quanto sto facendo un corso di genealogia storica ) e mi prende molto tempo con tante ricerche che ci sono da fare

    un abbraccio a tutti
     
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48 replies since 14/1/2016, 12:12   1649 views
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